[Parliamo di inclusività, dal talk “Presto! Dobbiamo trovare una donna per il nostro [evento, talk, board]!”. Francesca Marano ci racconta gli errori più comuni nel tentare il rispetto formale della diversità e ci indica quali sono, invece, le attenzioni sincere e utili per un risultato davvero inclusivo.]
Nuova puntata del podcast del Freelancecamp, tratta dal talk sull’inclusività di Francesca Marano“Presto! Dobbiamo trovare una donna per il nostro [evento, talk, board]!”. Cosa succede quando la tua attenzione all’inclusività è tutta manifesto e niente pratica? Servono le quote rosa per avere donne nei panel? I tuoi annunci di lavoro sono davvero senza discriminazioni di genere, età, ecc.? Buone e cattive pratiche per l’inclusività.
Puoi ascoltare la puntata del podcast, o leggere un estratto della trascrizione qui sotto.
Come non aggiungere diversity, dalle quota rosa in poi
Ciao, io mi chiamo Francesca e sono nel WordPress Core Team di Yoast, un gruppo di persone che lavorano su WordPress.org tutto il giorno. Quindi diteci grazie perché ci mettiamo del nostro. Davvero ci mettiamo del nostro.
Oggi però vi parlo di “Presto! Dobbiamo trovare una donna/gay/unə nerə/unə trans per il nostro evento/ /team/board/video/foto aziendale“. Quindi, di fatto: come non aggiungere diversity, dalle quote rosa in poi.
Una serie di “No: così non si fa inclusività”
Partiamo dai no. E poi vi do qualche consiglio per come fare davvero inclusività.
Quote rosa? No.
Parliamo delle tanto vituperate quote rosa. Io sono sempre stata una grande sostenitrice delle quote rosa perché ho sempre pensato che fosse comunque un modo per mettere il piede in mezzo alla porta.
Porta che si sta inesorabilmente chiudendo per me, donna quasi cinquantenne. E quindi ho sempre detto sì, meglio di niente.
Poi qualche anno fa sono stata a un evento in cui avevano cercato di avere il 50% di speaker donne e il 50% di speaker uomini, come se la diversità fosse binaria. Ma poteva comunque andare bene, come punto d’inizio.
Se non fosse stato che le donne erano inascoltabili: erano state chiaramente scelte solo in quanto portatrici di vagina, e non perché erano le più qualificate per parlare di quell’argomento.
Quindi le quote rosa sì, ma fatte bene. Per esempio al WordPress Verona hanno sempre raggiunto la parità uomini e donne facendo un percorso di mentoring per le relatrici. È molto impegnativo, lo so, ma prima di mandarle sul palco vengono preparate e incoraggiate a raccontare una cosa di cui siano effettivamente esperte.
Ehi, tu che sei gay vieni a parlare? No.
Ecco, non fatelo, non chiedete a qualcuno di parlare solo perché sospettate che faccia parte di un gruppo sottorappresentato. Fa sempre molto ridere dire che le donne sono una minority. Perché invece siamo più del 50% della popolazione mondiale. Ma di questo magari parliamo un’altra volta.
Solo perché una persona si presenta in un certo modo, parla in un certo modo, ha un determinato aspetto, non è detto che possa essere la nostra quota diversity per l’evento. Perché magari questa persona non ha assolutamente nessuna diversità.
Ma evitate anche di chiedere sempre alle stesse persone. Io e Alessandra Farabegoli abbiamo riso per tanti anni su questa cosa: noi due eravamo le quote rosa delle conferenze Tech italiane. Per fortuna devo dire che c’è una nuova generazione e un po’ hanno smesso. Però io continuo, nonostante tutto, a essere chiamata per fare la quota rosa ed evitare il panel solomaschi. Non è che ci siamo solo noi due che lavoriamo in Italia!
“Virtual signalign”? No.
Non fate quello che gli inglesi chiamano virtual signalign. Cos’è? Wikipedia dice:
Letteralmente “segnalazione di virtù”, all’incirca traducibile in italiano con il termine farisaismo. Si intende un atteggiamento di artefatta, e talvolta esasperata, ostentazione di aderenza a valori morali che riscuotono consenso nella società del tempo, al fine di ottenere visibilità o facile approvazione dagli altri, senza però l’attuazione di alcuna azione concreta per supportare le istanze dichiarate.
Virtue signaling su Wikipedia.
Si tratta di una locuzione che ha valenza negativa, e viene utilizzata per tacciare di falsità, ipocrisia e perbenismo persone, comunità o aziende che millantano una “superiorità morale” e all’apparenza si fanno paladine di questa o quella battaglia, ma nei fatti non si adoperano per portarla avanti.
Quindi, in pratica, è ostentare adesione a valori morali solo per ottenere consensi.
Cosa vuol dire? Il logo con i colori del Pride a giugno, per esempio. Ma poi vado sulla pagina della vostra azienda e non vedo una donna o una persona di colore nel board; da qui capisco che l’avete fatto solo per farvi belli. Oppure: logo nero nel Black History Month e poi scopri che quella azienda ha donato 100 milioni di dollari alla campagna di Trump.
State cercando personale. Non scrivete “questa opportunità è aperta tutti, senza discriminazioni sul posto di lavoro” se poi vado sulla pagina “lavora con noi” e vedo solo maschi bianchi tra i 20 e i 30 anni. Lo dite ma non ci credete nemmeno voi. E, soprattutto, se io anche avessi tutte le caratteristiche per venire a fare quel lavoro, difficilmente verrei in quanto unica donna, e quasi cinquantenne.
Avrei voglia di venire a lavorare nel posto in cui tra i vantaggi c’è il tavolo da ping pong? A me si stira subito il gluteo a questa età! La stanza per fare i power nap oppure – se fossi ancora in età – per l’allattamento, sicuramente sono vantaggi più interessanti del ping pong.
Nei valori aziendali scrivete solo quelli in cui credete davvero. Ora tutto il movimento soprattutto del femminismo intersezionale è abbastanza attento su queste cose. Quando trovano aziende manifeste nelle discriminazioni, o incoerenti e sospette di virtue signaling, si scatena il putiferio. E quindi non fatelo.
Siete tutti d’accordo con questi no? Ne volete aggiungere altri su come non inserire diversity?
(Giulia Tosato): fare offerte di lavoro in cui diciamo “posizione aperta a tutti i generi”, e poi la descrizione dei requisiti contiene solo termini e aggettivi maschili
Giusto, parliamo anche di linguaggio inclusivo. Bisogna dire che questo problema si verifica soprattutto con l’italiano, che è una lingua dove non ci sono molti termini neutri. Io, per fortuna, lavoro solo con l’inglese, in cui è molto più facile usare termini inclusivi.
Adesso su questo tema c’è molta più consapevolezza quindi, come sempre, se non siamo capaci facciamoci aiutare. In Italia ci sono diverse figure di copywriter che si occupano soprattutto di linguaggio inclusivo. Per esempio Alice Orrù, la consiglio sempre. [E la freelancecampista Valentina Di Michele, n.d.r]
Come fare davvero inclusività negli eventi
Come prima cosa: show don’t tell. Parliamo meno e facciamo.
Fatti, non parole
Quindi, invece di fare il predicone con la pagina sulla diversity e il codice condotta – che comunque vanno fatti – facciamo le cose davvero. E poi facciamo anche solo dei piccoli gesti, soprattutto agli eventi, che raccontano molto più della pagina con la dichiarazione di intenti.
Attrezzarsi per le disabilità
Mi viene sempre in mente un episodio, a questo proposito. Qualche anno fa, quando si potevano fare ancora eventi in presenza con molte persone, c’è stato un grande evento ufficiale della community WordPress che riuniva tutte le communy europee. Io facevo parte dell’organizzazione di questo evento, e ci accorgiamo che i palcoscenici non avevano la rampa per la sedia rotelle. Nonostante nessuno ci avesse dichiarato di averne bisogno, abbiamo comunque scelto di spendere 2.000 euro del nostro budget per fare la rampa d’accesso.
Non importa se poi nessuno l’ha usata, chiunque ha visto quell’evento ha visto la rampa d’accesso e ha pensato “Ma guarda un po’, magari mi propongo per questo evento perché si prenderanno cura della mia disabilità” oppure gli è venuto in mente un amico o un’amica su una sedia a rotelle o con problemi di mobilità e gli ha consigliato di venire. Non date per scontato che le persone vi chiedano, pensateci prima.
E non è detto che le persone abbiano una disabilità visibile: ci sono molte disabilità non evidenti e non è detto che la gente abbia voglia di raccontare i fatti propri.
Non pensare sempre per “binari”
Negli eventi poi ci sono altre cose importanti. Confesso che da italiana, cresciuta in una società patriarcale del “certe cose non si dicono”, alcune cose le prime volte mi faceva molto effetto.
I bagni genderless, per esempio: così le persone a pranzo non devono imbarazzarsi a dire “vado nel bagno del mio organo genitale o vado nel bagno dove mi sento a mio agio?”.
Gli assorbenti nei bagni: la prima volta che li ho visti volevo morire, perché per me non c’era nulla di più imbarazzante che parlare di mestruazioni.
Cibo agli eventi: gli onnivori non sono l’unica via
Ma possiamo parlare anche di cibo. Ci sono i vegetariani, i vegani. E poi può esserci bisogno di menù speciali in base alle religioni. Magari non lo posso prevedere da sola, ma posso metterlo nel form d’iscrizione. Così se qualcuno vuole un pasto Kosher sa che può venire, e magari senza poter mangiare solo l’insalata scondita.
La tua non è l’unica lingua
A cominciare dal linguaggio dei segni. Se abbiamo un o una interprete di linguaggio dei segni, dichiariamolo fin da subito, dalla call for speakers, per esempio.
E poi pensiamo anche alla trascrizione dei talk: è una cosa fondamentale per garantire una diversità nel pubblico. Non tutti parliamo bene inglese, magari, e comunque non tutti lo capiamo parlato, anche perché ci sono molti accenti diversi, non sempre comprensibili. Ma se lo vediamo scritto, di solito, capiamo qualcosa in più.
Come fare davvero inclusività nelle aziende
Come dicevamo anche prima: fare, e non solo parlare. E possibilmente anticipare i bisogni.
Nelle aziende questo si traduce in varie azioni. Di nuovo: gli assorbenti nei bagni. E poi la stanza per l’allattamento. E magari assicuriamoci che il parcheggio sia ben illuminato, così se sto fino alle 10 in ufficio non devo aver paura tutte le volte di essere violentata.
I congedi parentali: che vuol dire non solo alle mamme. Parentali: entrambi i genitori ne devono avere diritto.
Queste sono tutte cose molto pratiche per aumentare l’inclusione in azienda.
Si possono anche creare delle guild, in italiano le gilde: gruppi che si riconoscono in una diversità di un certo tipo possono far parte di un gruppo omogeneo di persone per aiutarsi e portare avanti istanze insieme, con più forza dei singoli.
Bisogna incominciare a pensarci, a metterci la nostra attenzione. Dobbiamo smetterla di pensare che in Italia siamo tutti italiani, bianchi e bruni, anche se i nostri governi stanno provando da 30 anni a fare in modo che gli italiani abbiano solo il mio aspetto.
Ma ancora non basta
Questi sono tutti ottimi consigli, perché ve li ho dati io, ma la verità è che anche una volta che avrete il parcheggio illuminato, la stanza per l’allattamento, il codice di condotta, la rampa, i bagni genderfree e tutte queste cose qui… poi bisogna iniziare, per davvero.
Cioè questo è il pre-lavoro. Il lavoro vero è andare a parlare con le persone, sedersi a loro fianco, quindi in una relazione fra pari e non “Ehi, tu con i capelli rosa, vuoi venire a fare la quota capelli rosa alla mia evento?”.
Io mi siederò e inizierò un dialogo in cui cercherò di capire se a a questa persona interessa fare la speaker, e poi sentire se ha qualcosa da dire, e magari spronarla perché lo faccia.
Concludo raccontando un episodio molto cringe.
Io ho una cara amica americana che negli ultimi tre anni ha cambiato tre aziende Tech. Tutte aziende che durante il Black History Month tutto un “siamo qua per i nostri fratelli e le nostre sorelle” ecc. Cioè, stiamo parlando di aziende grosse, non del salumaio di Pavia che magari fattura milioni ma sta coi cinque fratelli a scuoiare maiali tutti i giorni, aziende proprio grosse, che fanno e che spendono milioni in seminari sull’inclusività nelle aziende.
Questa mia amica, che è una programmatrice bravissima, ha dovuto mollare questi posti perché i suoi capi maschi non la invitavano alle riunioni, per esempio. E nelle performance review era sempre, non si sa come, quella che performava peggio di tutti.
Se potete, impegnatevi in prima persona con degli atti magari piccoli, ma pratici.
Yoast, per portarvi l’esempio di qualche azienda internazionale, ridistribuisce in fondi per la diversity una parte del budget rimanente dagli eventi in presenza . Puoi farlo anche tu: ci scrivi e ci dici “Io voglio contribuire”. Io, nel mio piccolo, tutti i mesi dono $150 a mantenere il progetto Open Source donne o non binary e dono a Girls Black Code.
Queste sono anche cose molto molto pratiche, molto piccole, ma che aiutano anche noi come freelance. E che possiamo mettere in pratica per fare; non solo parlare e farci il bollino Pride a giugno.
Altre cose che puoi vedere o leggere
- Il talk: Lo spazio delle donne oltre i confini dello spazio. Il lockdown ci ha catapultate in una nuova quotidianità che, tra le altre cose, ci ha permesso di allargare gli spazi a nostra disposizione senza bisogno di ampliare lo spazio fisico. Online le donne hanno la possibilità di informarsi, incontrarsi, confrontarsi, contarsi e contare.
- Il talk: La gestione delle aspettative è una questione di genere. L’organizzazione del lavoro, se sei una freelancer, non può prescindere dalla gestione di aspettative esterne che spesso cercano di importi un’identità in cui spesso non ti riconosci. La politica è ovunque, strumenti pratici e spunti d’ispirazione.
- Il talk: Late Bloom Revolution: i vantaggi di avere un business “dopo una certa età”. L’ageismo è una discriminazione ancora un po’ nascosta: smascheriamo idee preconcette e tabù radicati che ci appesantiscono il presente e ci interdicono il futuro. Con leggerezza e sul filo del racconto della mia personale fioritura tardiva.
- Il post: Perché ho deciso di usare lo schwa inclusivo (e magari potresti provarci anche tu) – di Alice Orrù.
- Il post: 10 regole per scrivere contenuti inclusivi – di Valentina Di Michele.